Alighiero Boetti

Gli esordi di Alighiero Boetti si collocano a metà degli anni Sessanta, nell’ambito delle sperimentazioni che porteranno in Italia una nuova definizione del processo artistico. Partecipa alle collettive che fondano l’Arte Povera, sviluppando la propria ricerca in una direzione autonoma che privilegia la distanza tra l’idea e l’esecuzione dell’opera. L’aspetto mentale del processo artistico è fondamentale nell’approccio di Boetti , che si orienta verso sistemi logici e concetti astratti per inventare continuamente nuovi modelli di conoscenza del mondo. Decide di sdoppiarsi nella firma Alighiero e Boetti,  divaricando la specificità del proprio nome dalla categoria del proprio cognome, e inserendo un elemento di contraddizione nella figura unitaria dell’artista.
La sua prima mostra personale si tiene all’inizio del 1967 a Torino, presso la Galleria Christian Stein. Le opere in collezione, datate 1966 ed esposte in tale occasione, si pongono come invenzioni autonome che tendono a una presenza neutrale e indipendente nello spazio. All’intenzionale assenza di rimandi metaforici corrisponde la varietà dei materiali impiegati: è già presente la logica del gioco combinatorio che correrà lungo tutta l’opera dell’artista. In Scala come anche in Sedia, partendo da una normale scala e una comune sedia in legno, Boetti fissa ciascuna struttura, continuando il corso naturale delle linee che la compongono. Il risultato è un oggetto tridimensionale, concepito però come un disegno carico di energia potenziale. «L’esperienza percettiva individuale fine a se stessa», per dirla con le parole dell’artista, è invece alla base di Catasta, 1966, composta da una serie di barre di Eternit, disposte a formare un alto parallelepipedo. Un tessuto a strisce colorate posizionato entro una struttura metallica forma Zig-Zag, 1966. Tautologicamente, il titolo indica il movimento che la struttura impone al tessuto e l’effetto ottico così ottenuto. Era parte della mostra di esordio di Boetti anche Mancorrente m. 2, 1966, nata con l’intenzione di indurre una determinata situazione psicologica nei visitatori. Costruita come una semplice sbarra cromata, l’opera secondo Boetti era destinata a «teatralizzare la situazione».
Seguendo il proprio innato nomadismo culturale, nel 1971 Boetti compie un primo viaggio in Afghanistan, luogo che diventa la sua patria d’elezione. A Kabul avvia la lavorazione delle mappe del mondo, planisferi ricamati a mano dalle donne afghane,dove ciascuna nazione è indicata dalla relativa bandiera. L’insieme della serie costituisce un lavoro in progress, in quanto ciascuna nuova mappa rispecchia i cambiamenti dell’ordinamento geo-politico, dovuti a guerre o rivoluzioni. In questo senso, il planisfero politico è un’immagine nella quale Boetti riconosce i princìpi, per lui fondamentali, dell’ordine e del disordine. Inoltre, l’artista insiste sull’importanza di un lavoro che non nasce da una sua invenzione , poiché la mappa del mondo ha una sua forma, le bandiere i loro colori e le ricamatrici la loro tecnica. La tecnica a ricamo è alla base di numerose serie, tra cui Tutto, 1987-1988. Il lavoro nasce dall’idea di assemblare la più grande quantità possibile di motivi figurativi – tratti da enciclopedie, libri per bambini, giornali e riviste – entro la superficie dell’opera. Il sistema ideato prevede che i contorni di ciascuna figura combacino con quelle vicine, in modo da non lasciare nessuno spazio vuoto. Le figure sono combinate sfruttando tutti gli orientamenti possibili e senza rispettare i limiti imposti dai bordi dell’opera, in modo da ribadirne la natura di frammento rispetto a una più ampia totalità. Per tutte le opere della serie, i colori sono circa cento e per ciascuno è impiegata la medesima quantità di filo. La scelta delle combinazioni cromatiche è affidata alle ricamatrici afghane che eseguono il lavoro. Come per tutti i ricami di Boetti successivi al 1979, anno dell’invasione dell’Afghanistan da parte dell’Armata Rossa, l’opera è stata realizzata da profughe rifugiatesi in Pakistan.

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