Francesco Clemente

Francesco Clemente si dedica alle arti figurative, si interessa di musica, di poesia e di letteratura. Esplora tutte le vie, approfondisce ogni forma espressiva, usa indifferentemente molte tecniche, senza prediligerne nessuna, e sceglie i diversi materiali secondo le proprie inclinazioni, le necessità del caso o le esigenze dell’immagine. I suoi acquarelli, i pastelli, i dipinti ad olio, i disegni, gli affreschi, i mosaici, raccontano un mondo in costante divenire, in perpetuo mutamento. Le sue opere sono sempre connesse con un itinerario di viaggio, si riferiscono alle tradizioni culturali del paese visitato, riportano le voci di terre lontane, si intrecciano con la biografia personale dell’artista alimentandosi delle passioni, dei desideri e delle emozioni che lo animano. Nomade per vocazione, Clemente nasce a Napoli, si trasferisce a Roma negli anni Settanta per iscriversi alla facoltà di Architettura e qui incontra Alighiero Boetti, Luigi Ontani e Cy Twombly, la cui pittura ricca di segni e di linee lo impressiona profondamente. Nel decennio successivo va a vivere a New York dove entra in contatto con la vivace vita culturale della città. In questo stesso periodo viaggia attraverso l’India, dove torna ripetutamente e vi soggiorna per lungo tempo. L’immersione nella tradizione indiana e orientale sarà una fonte di ispirazione costante per lo sviluppo di una materia densa di riferimenti iconografici complessi e per la sensibilità privata e diaristica che caratterizza molte sue opere. Si avvicina al disegno e in seguito alla pittura dopo numerose esperienze artistiche e umane e sviluppa progressivamente un linguaggio intensamente personale e di matrice soggettiva. In costante equilibrio tra una dimensione narrativa e una immaginativa pone la figura umana al centro dei suoi interessi. Il corpo come linea di confine che divide l’interno dall’esterno diventa uno strumento per l’approfondimento di se stesso e per la conoscenza della realtà che lo circonda. Sin dall’inizio si dedica al tema degli autoritratti, che approfondisce lungo tutto il corso della sua carriera. Spesso l’artista compare con occhi ingranditi oltre misura oppure il suo corpo è soggetto a distorsioni e deformazioni. In Autoritratto senza specchio, 1979, la postura scorretta delle gambe e delle braccia rappresenta una modalità per affrontare il mondo da un’altra angolazione, lontana dalla visione corrente della maggioranza delle persone. É un modo per osservare se stessi e gli altri da prospettive diverse, insolite, una sorta di documentazione dell’io la cui continua ripetizione non definisce una frammentazione o dispersione, ma rappresenta sempre una nuova rinascita. In questo, come in altri disegni, attraverso uno stile aperto che esalta il valore delle relazioni e delle assonanze, i giochi combinatori e le analogie visive, gli ideogrammi e la libera immaginazione, Clemente dilata la propria inclinazione naturale al frammento, aprendo il suo mondo espressivo alle potenzialità delle linee. Frammenti di corpi, di emozioni impresse su carta o su tela, di forme complesse oppure estremamente semplici e stilizzate, sezioni di tempo e di spazio, lacune e fragilità, si addensano nell’immaginario poetico dell’artista, popolano la superficie dei suoi lavori. Le immagini si fondono e si confondono, si rianimano senza un significato preciso, non rincorrono interpretazioni concettuali, ma si offrono al piacere della vista nello spazio della superficie che le accoglie. Attraverso un processo di continua metamorfosi e mutazione, le forme trasmigrano, abbandonano il contesto culturale a cui appartengono per ripresentarsi in maniera diversa in un altro angolo di mondo, come succede per il quadro in collezione che riporta l’eco degli interessi cosmopoliti dell’artista. Tra il giugno e il settembre del 1982 Clemente dipinge Il cerchio di Milarepa (pubblicato precedentemente con il titolo The Midnight Sun IX – Il sole di mezzanotte IX). L’opera appartiene a un ciclo di dodici tele, ideato quale replica di un altro gruppo di dipinti The Fourteen Stations (Le quattordici stazioni) e realizzato durante un soggiorno a Capri. Il soggetto si ispira a una tradizione orientale e la suggestione per la figura di un monaco buddista che dedicò l’intera esistenza alla ricerca dell’illuminazione, trova riscontro nella densa superficie materica formata da più strati pittorici. Nella stratificazione delle immagini senza un interesse preciso, ma solo per la gioia di incontrarsi possiamo leggere le molteplici e estenuanti prove a cui fu sottoposto l’eremita durante la sua vita terrena. Quello di Francesco Clemente è un contesto pittorico che si nutre di invenzioni libere, una pittura di confine, un’arte che accoglie il passato e il presente, l’occidente e l’oriente, intimamente autobiografica, che racconta di viaggi, che offre voce al suo io più profondo e si alimenta della sua vita e delle sue esperienze personali.

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