Maria Nordman

Maria Nordman partecipa alle ricerche di arte ambientale sorte in California nel clima postminimalista degli anni Settanta. Lo spazio per l’artista è una dimensione che lo spettatore deve sperimentare totalmente, sviluppando le sue capacità di ricezione e reazione psicofisica. Nordman lavora esclusivamente con la luce naturale degli ambienti in cui si trova a operare, concependola sia come strumento di svelamento che di trasfigurazione dello spazio. Se l’assenza di luci artificiali consente agli spettatori di percepire ogni trascolorare della luce del sole, l’adozione di specchi che riflettono e proiettano i raggi solari, o di vetri colorati usati come filtri alle finestre o ai lucernari, determina l’esperienza della luce e del colore come dimensione che altera, in senso emotivo, i dati della percezione. L’artista interviene anche nei luoghi aperti, con installazioni di strutture che richiamano l’esperienza quotidiana, quali sedili e tavoli che il pubblico può utilizzare, o allusive dell’abitabilità come concetto astratto.
Incontro tra la Dora e il Po, 1985, consiste di due distinte installazioni, l’una realizzata all’interno di una sala del museo e l’altra collocata all’esterno, sul terrazzo dell’edificio. Il punto di partenza per l’ideazione dell’opera è stato l’individuazione di un elemento dell’architettura del Castello di Rivoli, le lastre di marmo che rivestono i costoni dell’edificio e che formano degli angoli. Nordman coglie e usa questo elemento costruttivo basilare trattandolo quasi come un archetipo. All’interno del Castello, l’artista ha edificato un grande parallelepipedo in legno, nel quale ciascuna parete esterna è stata dipinta con un colore diverso (rosso, nero, blu, verde). Con un sistema di doppie porte, ha reso abitabile la costruzione secondo canoni non ortodossi, contraddicendo le regole basilari dell’architettura tradizionale. L’angolo, il punto di incontro di due pareti non delimita qui uno spazio chiuso e portante, ma diviene elemento mobile e punto di apertura, passaggio, scorrimento. Le quattro doppie porte costituiscono l’unica fonte di luce atta a orientare lo spettatore una volta entrato all’interno dello spazio. La sensazione di distacco è accentuata anche dalla paradossalità del rapporto interno-esterno, che assume funzione straniante. La costruzione infatti chiude lo spazio, ma è posta a sua volta all’interno della sala, mentre l’installazione sul terrazzo è realizzata all’aria aperta, ma ancora all’interno dell’edificio. Qui, non più pareti ma sedili, ottenuti con la stessa pietra usata per i rivestimenti del Castello e costruiti sugli angoli di un virtuale rettangolo le cui dimensioni perimetrali sono identiche a quelle della costruzione installata nella sala. Per lo spazio aperto, Nordman ha pensato a un altro archetipo dell’abitabilità, quello del sedile che, raddoppiato in quattro elementi identici angolari, rimanda all’idea del dialogo, e dunque dell’incontro, com’è appunto attestato dal titolo dell’opera. Il materiale, marmo grezzo proveniente da una cava posta all’incrocio tra i fiumi Dora e Po, a sua volta evoca il paesaggio naturale da cui quegli elementi sono tratti.
Dalla notte al giorno, da una mano all’altra, 1989, è una serie di opere ciascuna formata da un tavolo che reca una struttura lignea simile a quelle usate per documenti d’archivio. Gli spettatori possono visionare i fogli di carta o di marmo così conservati accomodandosi sulla sedia, interagendo con l’opera in una dimensione che rimanda all’abitare e al vivere quotidiano. Quando esposto alla luce, il sottilissimo foglio di marmo rivela la propria trasparenza, svelando una leggerezza inaspettata. Ciascuna carta reca invece scritte e appunti che rimandano alla relazione tra l’idea di città, il sito sul quale essa sorge e la luce naturale.

[G.V.]