Daniel Buren
Dal 1965 Daniel Buren ha ridotto la sua pittura a una serie di bande verticali, bianche e colorate, sempre larghe 8,7 cm. Per l’artista, tali strisce alternate sono “uno strumento visivo”. “La striscia – dice – non è una mia invenzione, né una mia proprietà. Io la utilizzo soltanto”. Atto radicale, l’adozione di tale segno di carattere neutro e impersonale è in aperta contraddizione con la storia tradizionale dell’arte, al punto che Buren dichiara polemicamente di “non essere un pittore”. Sviluppando ulteriormente il proprio intento critico, approfondisce la relazione tra l’opera e l’ambiente che la ospita. Il formato dell’opera subisce così profonde trasformazioni e, oltre alla tela, i supporti includono tessuti stampati, carta, vetro, specchio, legno, bandiere, stendardi. Da bidimensionali, negli anni Ottanta i lavori dell’artista diventano talvolta installazioni tridimensionali. Lavorando in modo da analizzare, storia, funzioni, significati e peculiarità di ciascuno dei contesti incontrati, l’artista sviluppa sia opere per gli spazi museali che opere capaci di dialogare con la complessità degli spazi aperti, come strade, piazze, parcheggi o stazioni della metropolitana.
Se già durante gli anni Sessanta e Settanta Buren dà ampio spazio alla diffusione delle proprie teorie con manifesti, nel corso di tutta la sua carriera continua a pubblicare testi cosicché l’insieme dei suoi scritti rappresenta parte integrante del suo lavoro di artista.
Dal 1984, Buren articola la relazione tra l’opera e lo spazio attraverso un’importante serie di opere che definisce Cabanes eclatées. Partendo da un modulo costante, riconducibile all’idea della tela pittorica montata sul suo telaio ligneo, ciascuna Cabane è data dalla giustapposizione di più moduli, montati a costruire ambienti tridimensionali che ricordano stanze abitabili le cui dimensioni e colori sono relativi al contesto espositivo. Inoltre, estendendo in senso concettuale la relazione tra la pittura e la sua capacità di “sfondare” lo spazio, quasi si trattasse di una finestra, ogni Cabane, oltre a essere dotata di accessi simili a porte, ha un ampio numero di aperture, analoghe a finestre. Come per effetto di un’esplosione, controllata però dalla misura dell’intelletto, a ogni porta o finestra corrispondono altrettanti “quadri” di analoga dimensione, installati sui muri ad altezze conformi. La Cabane éclatée n.3, travail situé (La capanna esplosa n.3, opera situata), 1984, in collezione, è una tra le prime opere realizzate nell’ambito di questa serie. L’installazione, realizzata con tela a strisce bianche e gialle, è articolata sulla relazione tra il quadrato e le sue possibili suddivisioni triangolari, in base a una geometria individuata come parte dell’impianto decorativo del Castello. Anche la doppia altezza dell’installazione è stata fissata in conformità con gli ambienti aulici. In risposta alla grandiosità delle sale, essa è infatti sviluppata ripetendo due volte in verticale analoghe successioni di “porte” e “finestre”, quasi si trattasse di due stanze sovrapposte. Come nelle altre opere della serie, a tali aperture corrispondono dinamicamente ulteriori elementi installati a muro. Sviluppando un inedito dialogo, l’opera sottolinea così la doppia funzione del Castello in quanto ambiente storico e museo dedicato all’arte contemporanea.
L’opera è nata in occasione della mostra di inaugurazione del Castello di Rivoli. Inizialmente è stata presentata nel salotto cinese, la sala disegnata nel 1792 dall’architetto Carlo Randoni, ma può essere allestita anche in altre sale del Castello. Secondo la definizione dell’artista, la Cabane di Rivoli appartiene infatti alle opere che chiama travaux situés (opere situate). Contrariamente ai travaux in situ (opere in situ), i travaux situés non sono legati irrimediabilmente al luogo per il quale sono stati inizialmente creati, ma possono essere installati in ambienti diversi. Secondo l’artista, gli elementi che costituiscono l’opera restano identici, ma a seconda del luogo incontrato vengono riposizionati in composizioni differenti. Come scrive Buren “a differenza delle opere d’arte classica, moderna e talvolta contemporanea, che affermano la loro autonomia in relazione allo spazio dove sono presentate, i lavori che possono essere definiti ‘travaux situés’, vengono così chiamati per insistere sull’interdipendenza assoluta tra l’oggetto e il luogo nel quale viene osservato”.
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