Massimo Bartolini

Le opere di Massimo Bartolini nascono dall’indagine dell’artista nei confronti dello spazio e dei sistemi percettivi e relazionali che si vengono a creare nel rapporto del fruitore con esso. Lo spazio occupato, modificato o creato ex novo dall’artista, non è inteso unicamente come luogo fisico, reale e architettonicamente definito, ma piuttosto sembra traslare verso la dimensione più intima ed emotiva della mente umana. Servendosi di un luogo dato e predefinito, o anche di oggetti d’arredo di uso comune, quali librerie, letti, panche e tavoli, Bartolini ne modifica le principali caratteristiche e coordinate, ribaltando significati e usi comuni e creando uno spiazzamento percettivo nel visitatore.
In Head n.2 (The Studio) (Testa n.2 – Lo studio), 1997-1998, una stanza immacolata, asettica, dagli angoli arrotondati viene trasformata in uno spazio mentale, abitato da un tavolino pieghevole in legno sulla cui superficie è proiettato il salvaschermo di un computer. Il suono di un basso, come un profondo battito cardiaco, accompagna i visitatori che, entrando uno alla volta, si ritrovano soli a confronto con l’opera d’arte: una pausa di riflessione in contrasto con la velocità e la voracità del mondo contemporaneo.
Anche in Tamburo, 2002, ritroviamo un ambiente algido. L’opera è costituita da un pavimento sopraelevato in mattonelle bianche che, basculante, si muove con il camminare delle persone sopra di esso. Lo sfasamento percettivo e la conseguente perdita di sicurezza che accompagna i visitatori nella stanza è accentuata da alcune noci che, assecondando i movimenti della superficie, rotolano nello spazio creando un effetto straniante rispetto all’impianto minimalista della struttura.
In Finestra su finestra, 2002-2003, Bartolini sembra invece allontanarsi dall’idea del “cubo bianco”: invitato a esporre nella Manica Lunga del Castello di Rivoli in occasione della mostra I Moderni, ha rivolto il suo interesse verso le alte finestre che contraddistinguono questo singolare ambiente seicentesco anticamente adibito a pinacoteca della famiglia Savoia. Focalizzando l’attenzione sulla percezione del paesaggio circostante, ha ricreato una piccola stanza con il pavimento in salita verso la finestra modificata e provvista di piccole aperture verso l’esterno. L’aria entra dalle fessure della finestra mentre dell’acqua sgorga, invece che dal rubinetto, dal tubo di scarico di un lavandino installato nella stanza: coinvolgente come un dipinto del Romanticismo tedesco, lo spazio si apre ai sensi del visitatore per travolgerlo nella sua intimità.
Le opere di Bartolini non possono prescindere dal rapporto con lo spazio pre-esistente, pur conservando sempre un’innata e autonoma forza scultorea. In Lo studio alle 3, 1994-2002, un materasso coperto da un pavimento di piastrelle in ceramica diviene un tramite per la rappresentazione dello studio dell’artista ridotto ai suoi componenti essenziali mentre in Pavimento ad occhi chiusi, 1997, è l’essenzialità del medium utilizzato a divenire veicolo per significati diversi. Una comune tenda veneziana si trasforma infatti in un improbabile pavimento la cui superficie occupa quasi interamente la stanza dove è installata impedendone l’ingresso e manifestando, attraverso la sua inaccessibilità, che ancora una volta per l’artista lo spazio è principalmente quello astratto e intellettuale della mente umana.

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