Maurizio Cattelan

Le opere di Maurizio Cattelan sembrano imporsi a forza nell’ambito del reale e, agendo come elementi di disturbo, ne perturbano l’ordine costituito. Come ha affermato l’artista, il suo procedimento si basa sull’idea di «prestito»: immagini e situazioni che appartengono alla collettività sono rielaborate, diventando riflessioni di carattere esistenziale o commenti sulle dinamiche sociali e culturali appartenenti al contesto nel quale viene presentata l’opera. Come la realtà, ciascun lavoro di Cattelan è sempre aperto a numerose interpretazioni, talvolta anche di natura contraddittoria: invece di offrire certezze, le sue opere estendono il dubbio a condizione destinata ad accompagnare la coscienza contemporanea.
L’elemento parodistico è spesso presente nelle opere dell’artista. Ne Il Bel Paese, 1994, Cattelan riprende l’etichetta dell’omonimo formaggio, ingrandendola e usandola per formare un tappeto circolare. La lusinghiera metafora, già impiegata da Dante e Petrarca in riferimento alle meraviglie della penisola italiana, viene così contaminata e trasformata in elemento calpestabile, potenzialmente sporcato dal continuo passaggio dei visitatori.
Il titolo Charlie don’t surf (Charlie non fa il surf), 1997, è invece una citazione tratta dal film Apocalypse Now di Francis Ford Coppola, relativa alla scena in cui gli americani attaccano e distruggono un villaggio vietnamita per accedere a una spiaggia e cavalcare le onde con i loro surf.  Elaborando un’ulteriore riflessione sulle infinite declinazioni della crudeltà umana, l’opera ha la forma di un manichino con fattezze di bambino seduto al suo banco di scuola. Apparentemente diligente, lo scolaro è costretto in una situazione di forzata  immobilità. Trapassate da matite, le sue mani sono inchiodate al banco.
Una diversa allusione a una condizione esistenziale dove il soggetto è privato di qualunque possibilità di azione è elaborata in Novecento, 1997. L’opera consiste in un cavallo imbalsamato appeso al soffitto mediante un’imbracatura. Il collo dell’animale è piegato verso terra e le zampe, allungate nel corso del procedimento tassidermico, sono tese verso il suolo. Inedita versione di «natura morta», l’opera trasmette il senso di una tensione frustrata, un’energia destinata a non trovare sbocco. Per ammissione dello stesso artista, l’insicurezza è un aspetto determinante del suo  modo di agire e l’idea di fallimento è un tema ricorrente nelle sue opere.
L’ambiguità del messaggio è sempre presente nei suoi lavori. Un ulivo e la grande zolla di terra che ne contiene le radici compongono l’installazione Senza titolo, 1998. Albero simbolico, l’ulivo è tradizionalmente legato al divino e, nella cultura cristiana, simboleggia la rinnovata alleanza tra Dio e gli uomini. In ambito più strettamente artistico, l’utilizzo dell’albero ricorda invece l’impiego dei materiali naturali e delle energie primarie, secondo il linguaggio dell’Arte Povera. Tuttavia, nell’opera di Cattelan nessun elemento permette di pensare a una rinnovata fede nelle molteplici simbologie legate alla figura dell’albero. Piuttosto, le dimensioni veramente imponenti dell’installazione e il grande cumulo di terra sormontato dall’ulivo che incombe sugli spettatori sembrano un’abnorme «fetta di realtà» portata a forza dentro il museo.
Nel corso della sua carriera, Cattelan ha talvolta chiesto ai propri galleristi di esporsi in qualità di performer, camuffandoli con costumi appositamente disegnati. Nel caso del suo gallerista milanese, l’artista pensa invece di esporre la persona così come è, letteralmente attaccandola al muro con robusto nastro adesivo. Il crudele trattamento, quasi una crocifissione, può essere interpretato come un commento sull’altalenante relazione di potere che detta i rapporti tra gli artisti e i loro galleristi. Senza titolo, 1999, è la fotografia scattata in occasione della performance, eseguita per alcune ore presso la Galleria Massimo De Carlo a Milano.

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