Michelangelo Pistoletto
Quella di Michelangelo Pistoletto è un’arte aperta al dialogo e allo scambio. La sua intera opera si presenta come una ricerca in continua evoluzione ed espansione, intesa a ripristinare il contatto tra l’esperienza artistica e il mondo esterno. E’ l’incontro e il dialogo di più voci quello che si manifesta nei suoi lavori, è un’estetica fondata sulla relazione e sulla partecipazione, è la capacità di uscire dai confini dell’opera per riportare l’arte ai margini della vita e la vita nell’arte. Il suo apprendistato presso lo studio di restauro del padre condiviso con l’esperienza nella scuola di pubblicità fondata da Armando Testa, alla quale lo iscrisse la madre, segnarono l’inizio della sua vicenda artistica condizionando i contenuti futuri della sua analisi estetica. Formatosi quindi lontano dall’ambiente accademico, Pistoletto risentì del clima di alienazione e di angoscia esistenziale del dopoguerra e riconobbe nella pittura di Francis Bacon, di cui vide una mostra alla galleria Galatea a Torino, parte degli elementi propri della sua indagine speculativa volta a indagare la figura umana e le sue relazioni con il mondo. Fin dalla prima metà degli anni Cinquanta si interroga sulla natura dell’identità personale e intraprende la via dell’autoritratto come espressione emblematica del suo pensiero.
L’uomo è al centro dei suoi interessi, un uomo moderno alla ricerca della sua dimensione e del proprio spazio. Individua nel problema per la risoluzione della campitura del fondo, cioè l’ambiente dietro la figura, il nodo centrale da investigare e il punto da cui partire per la ricostruzione di una dimensione possibile nella quale collocare il corpo umano. Nel 1961 dipinge il primo quadro specchiante Il presente in cui il proprio autoritratto a grandezza naturale si staglia su un fondo nero ottenuto con vernice acrilica lucidissima che lo rende riflettente. Ma il vero protagonista è il rapporto di istantaneità che si crea tra lo spettatore e il suo riflesso sulla tela. Quest’opera si apre alla vita come scambio di relazioni e prospettive, penetra il mondo e se ne lascia penetrare, determinando una nuova dimensione spazio temporale. In seguito perfeziona la tecnica dei suoi quadri specchianti sostituendo al supporto di tela una lamina in acciaio inox lucidata a specchio sulla quale applica immagini di persone o oggetti, ricavate da fotografie a grandezza naturale e dipinte su carta velina, sostituite, a partire dagli anni Settanta, da serigrafie. E’ in questo periodo che nascono alcune delle opere in collezione come Ragazza che cammina, 1962-1966, e Lampadina, 1962-1966, in cui realtà e rappresentazione si fondono nello scambio dialettico che si crea tra l’elemento dipinto e quello che appare di volta in volta riflesso sulla superficie. Il superamento delle frontiere segnate dalla dimensione pittorica rappresenta per Pistoletto l’apertura a un paesaggio che si affaccia sulla contemporaneità dell’esistenza. In Venere degli stracci, 1967, la riproduzione di una statua greca, la Venere Callipigia, metafora della memoria, si relaziona con una massa variopinta di indumenti dismessi, emblema del quotidiano, in un dialogo serrato tra passato e presente. Gli stracci, assunti come elementi pittorici, rappresentano tutto ciò che passa, la trasformazione della materia, il transitorio, e hanno anche una componente ideologica quale prodotto di una società consumistica di cui indicano il crescente numero di poveri, mentre la copia della Venere classica in cemento ricoperta di mica, minerale dalla forte componente luministica, è un elemento formale che rimanda all’ordine e alla bellezza immutabile. Con quest’opera Pistoletto indica un modo diverso di guardare all’arte del passato e dimostra attraversando la storia di voler ricontestualizzare questa figura che ha il volto affondato nella contemporaneità e fisicità del presente.
Negli anni Ottanta indaga la scultura. Da sempre oggetto dei suoi interessi e al centro delle sue passioni, a quattordici anni dà inizio alla sua collezione personale comprando la sua prima statua antica in legno, la scultura gli permette di sviluppare ulteriormente quel rapporto tra passato e presente, quel dialogo tra memoria e realtà che come un filo rosso caratterizza tutta la sua ricerca. In Onda di bronzo, 1982-1983, il corpo dell’opera è formato da numerose colate di metallo, che stese sul pavimento si assemblano in un’unica struttura. La potenzialità espressiva della materia è resa dallo spessore piatto della superficie che rinunciando alla sua tridimensionalità si apre a visioni suggestive che sembrano evocare i flutti del mare. Nel 1984 realizza Persone nere in poliuretano espanso. Sceglie questo materiale, già utilizzato in precedenza, per la sua rapidità di esecuzione e per la sua leggerezza. Le figure appena abbozzate si estendono in altezza, trovando nella verticalità e nella rotazione complessa dei corpi la loro dimensione più propria. Il carattere monumentale di questa scultura è tradito dal peso inesistente della sua materia secondo una dialettica di contrari che da sempre affascina l’artista. Il poliuretano assume tutte le forme immaginabili come frammenti di un passato recuperato, restituisce alla memoria della scultura classica, sedimentata nell’immaginario collettivo, la sua collocazione in uno spazio moderno. In questo viaggio tra i vuoti e i pieni della materia possono essere collegati anche i lavori realizzati in marmo che riguadagnano l’ambiente esterno. Figura che guarda nel pozzo, 1983-1984, precedentemente collocata nel cortile di Casa Aurora, sede del Gruppo GFT di Torino, è un’opera in marmo rosso di Verona alta circa sei metri. La superficie disegna l’immagine di una persona concentrata a guardare qualcosa o qualcuno, in un’alternanza di piani lisci e di piani lavorati. E’ una ricerca sul volume come condizione imprescindibile per offrire una nuova spazialità agli oggetti scultorei.
In L’architettura dello specchio, 1990, continua ad affrontare l’indagine sul principio specchiante e riflessivo, punto di riferimento fondamentale per tutto il suo lavoro, proponendo in una dimensione critica un momento diverso di questo percorso speculativo. L’opera concepita per un determinato luogo, il Centre d’Art Santa Mònica a Barcellona, unisce alla dimensione del tempo attuale, già affrontato nei lavori precedenti, quello dello spazio architettonico con il quale entra in relazione. La superficie di questo specchio diviso in quattro parti, preso come campione emblematico di contenitore universale, non accoglie alcuna immagine dipinta perché potenzialmente le riflette tutte. In quest’opera si incrociano unità, divisione e molteplicità, relazionandosi in maniera dinamica al tempo segna il passaggio da una dimensione storica, il chiostro di un antico convento, ad una contemporanea, il cambio di destinazione d’uso di questo luogo come centro espositivo. E’ l’inizio di una nuova specularità fondata sulla moltiplicazione della superficie dove la memoria entra in relazione con lo spazio attraverso lo specchio come suggerisce l’identificazione straordinaria dell’etimologia della parola mèmoire (memoria) con miroir (specchio). In primo luogo, 1997, presenta ancora il richiamo alla componente classica a testimoniare la circolarità del pensiero di Pistoletto. L’installazione inserita all’interno di un edificio nel centro di Torino, che diventa parte integrante dell’opera, presenta al suo interno la seconda versione di un lavoro realizzato in precedenza, L’Etrusco. Si tratta di una copia in gesso della celebre statua antica in bronzo l’Arringatore, che ritrae Aulo Metello nel momento di approntare un discorso. Questi, collocato di fronte a uno specchio con il braccio teso verso di esso, indica una doppia direzione e una doppia prospettiva, la profondità dell’opera e il primo piano, secondo una dialettica delle antinomie tanto cara alla poetica di Pistoletto.
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