Tracey Emin
Quando arte e vissuto si mescolano e vivono nella reciprocità fino a confondersi l’una con l’altro, diventa difficile capire e percorrere il limite che li separa, così accade che osservando le opere di Tracey Emin non ci si accontenti del puro aspetto formale ma come dei pudici voyeurs si cerchi inutilmente di comprendere dove finisce la persona e inizia l’artista. Eppure se è tra maestri dell’Espressionismo quali Edward Munch e Egon Schiele che si devono cercare le sue fonti iconografiche oltre che espressive, non dovremmo sorprenderci se è proprio dal profondo dell’anima e dalle sue lacerazioni che nascono opere talvolta sfacciatamente provocatorie, ma che racchiudono in sé tutta la violenza e la disperazione della società attuale.
Utilizzando diversi medium, di cui alcuni tipicamente e ancestralmente femmili, come il ricamo, Tracey Emin, racconta una storia – la sua – e per farlo utilizza il proprio corpo e dà voce alle proprie parole, siano esse dipinte, ricamate, al neon o semplicemente evocate. Autrice di diversi testi, tra i quali il primo e più conosciuto Exploration of the Soul (Esplorazione dell’anima), 1994, nella sua disarmante onestà è un testamento del pensiero dell’artista, Emin si serve del linguaggio verbale come dell’arma più sfrontata e immediata per colpire con la sua crudeltà l’apparente innocenza dell’osservatore. Frasi ed epiteti volgari principalmente legati alla sessualità, compaiono in opere su tela e in collage ricamati con perizia, quasi a sottolineare come un gesto e un mestiere tipicamente femminile possano evidenziare nella loro palese contrapposizione la volgarità delle frasi utilizzate. In Take What the Fuck You Like (Prendi quel cavolo che ti pare), 2001, è proprio la cruda espressione verbale a cui nulla si può aggiungere, a venire sottolineata dal contrasto con la disarmante semplicità grafica dell’opera.
Quando l’uso della parola viene meno sono i corpi a parlare; corpi femminili sessualmente provocanti e ambiguamente disposti allo sguardo indiscreto dell’osservatore, disegnati con un tratto scarno ed essenziale accompagnano scandendole le tracce di un’autobiografia per immagini che non fa mistero delle violenze subite dalla stessa artista quando era adolescente. In Dolly, 2002, il disegno è ridotto al minimo e le linee quasi spigolose che delimitano il corpo ricordano i ritratti femminili tracciati dall’abile mano di Schiele. I ricami floreali che sovrastano arricchendola la scritta Dolly, sottolineano per contrasto la nuda semplicità della figura. La presenza di un fiore invece nasconde, o forse evidenzia, le parti intime della donna, origine del mondo secondo Gustave Courbet, ma anche segno esplicito della perdita di innocenza, quasi a scoprire una nudità più consapevole e profonda, quella della propria anima, che l’artista offre alla nostra indiscrezione.
[COB]