Mona Hatoum

24 marzo 1999 - 23 maggio 1999
A cura di Giorgio Verzotti
Di origine palestinese e emigrata in Libano, dove non è più tornata a causa della guerra civile scoppiata durante un suo soggiorno europeo, Mona Hatoum (Beirut, 1952) evoca attraverso i suoi lavori la condizione di isolamento che contraddistingue il suo essere “senza patria”.
Dalle prime performance, basate su azioni provocatorie e tese a indurre una riflessione sui condizionamenti sociali, alle successive sculture e installazioni, le sue opere riesaminano i rapporti tra individuo e società.
Tra i lavori, sono presenti in mostra alcune sculture in materiali diversi che richiamano nella loro struttura i mobili di arredo domestico, ma che contengono elementi estranei. Osservandole attentamente si scopre che oggetti innocui sono stati resi pericolosi apportandovi minime
modifiche: fili taglienti formano la base di un lettino per bambini, due lame si trovano al posto delle maniglie di una sedia a rotelle, un tappeto è composto da una miriade di spilli mentre, quella che dovrebbe essere una comoda dormeuse, è realizzata in rigido ferro.
L’elemento di disturbo è presente anche nell’enigmatico cubo nero pensato come omaggio a Piero Manzoni, la cui rigida struttura minimalista sembra in realtà composta e ricoperta da elementi organici simili a viscere umane.
Insieme a queste, vengono presentate due opere che più esplicitamente si riferiscono alla biografia dell’artista: un cubo formato dall’unione di tanti saponi sulla cui superficie appaiono descritti da una serie di puntini rossi i confini della Palestina quali dovevano essere secondo gli accordi di Oslo, e una enorme mappa del globo, i cui continenti sono formati da un insieme di biglie disposte a pavimento e destinate a rotolare via nel tempo con il passaggio dei visitatori, fino a portare a un inevitabile sfaldamento dei confini che fa riflettere su quanto le demarcazioni geopolitiche possano condizionare l’esistenza degli esseri umani.
Chiara Oliveri Bertola