Roberto Cuoghi Šuillakku

06 maggio 2008 - 27 luglio 2008

a cura di Marcella Beccaria

Lievi alterazioni fisiche, metamorfosi complete, sparizioni temporanee, viaggi nell’immediato futuro o nel passato più remoto sono alcuni tra gli elementi che caratterizzano la quotidianità di Roberto Cuoghi (Modena, 1973). Sperimentando fino all’ossessione, l’artista inventa continuamente se stesso e il proprio metodo. A venticinque anni, inizia un processo di trasformazione fisica che lo porta ad assomigliare a suo padre. Usa i suoi abiti, si decolora barba e capelli e aumenta di peso, passando dai suoi 60 chili scarsi a più di 140 in pochi anni. Scavalcando la propria giovinezza, assume così i modi e i gesti di una persona ultrasessantenne, vivendo come tale per quasi sette anni. Malgrado chiarisca che le sue motivazioni sono personali, il suo gesto crea una zona d’ombra tra i confini del privato e quelli del suo operato di artista, scatenando la morbosa attenzione di una parte del mondo dell’arte contemporanea. In retrospettiva, è oggi chiaro che l’idea di metamorfosi è fondamentale nell’ambito del suo singolare percorso artistico. Mutando il processo fisico in un’operazione squisitamente mentale, la trasformazione di Cuoghi diventa il filo rosso che lega un’indagine relativa ai temi del tempo e della memoria alla continua confusione tra l’apparenza e la realtà. Comprendente disegno, video, fotografia, pittura, scultura e opere sonore, la multiforme produzione di Cuoghi è caratterizzata dalla sperimentazione e dall’invenzione tecnica e stilistica. L’invito a sviluppare una mostra personale al Castello di Rivoli, è per l’artista l’occasione per intraprendere un vertiginoso salto all’indietro, calandosi in Mesopotamia, al tempo degli Assiri.

Tra la successione di fatti che scandiscono la storia dell’antica civiltà, l’artista si sofferma sul momento più drammatico, quello in cui l’impero cade rovinosamente, tra il 612 e il 609 a.C., quando Ninive, l’ultima capitale ufficiale, e poi Harran, cadono sotto gli attacchi dei Medi e dei Babilonesi. La violenza di questi scontri è tale che la sconfitta delle due città coincide con la fine della stessa civiltà assira. L’artista si appassiona a uno dei più affascinanti capitoli dell’archeologia, perché da Ninive riparte la scoperta di un mondo prima dimenticato e si inizia a riscrivere la storia dell’origine della cultura occidentale. Quasi come se si muovesse tra le vie della città, Cuoghi ne respira il calore, la polvere. Osserva gli uomini, le donne e i bambini, ne assorbe il linguaggio, i riti, le superstizioni, e, quando si scatena l’assedio fatale, è come se Cuoghi partecipasse in prima persona alla fuga dei superstiti. Šuillakku , l’opera sonora ideata da Cuoghi per la mostra a Rivoli è il frutto di quest’ultima metamorfosi dell’artista. Mutando i propri pensieri e moltiplicandoli in quelli di alcune centinaia di Assiri, Cuoghi ne condivide le ansie e le credenze, risolvendole in una lamentazione rivolta agli dei. Pronunciato sciuilaqu, il titolo si riferisce a una posizione di preghiera con la mano alzata, praticata dagli antichi Assiri e formata dall’unione di rumori, musica e canti, che l’artista ipotizza potesse essere la risposta del gruppo di superstiti alla gravità del momento. Se la sua immaginazione è catturata dal momento della fuga, il suo raziocinio lo mette nella condizione di creare e interpretare in solitudine ogni suono o voce e di ricostruire un’intera orchestra di strumenti, tra cui una grande lira, gli šofar, realizzati con corni di animali. Lavorando di fantasia, si ingegna a costruire strumenti anche con materiali industriali contemporanei. Riproduce il suono di un lilissu, il grande tamburo sacro e realizza poi dei sistri. Bilancia la ricostruzione filologica con l’invenzione fantastica, secondo un metodo che è serissimo ma anche ironico e giocoso. Attraverso una pianola-giocattolo costruisce una melodia basata sull’alternanza ripetitiva di due note, ispirata alla musica assira microtonale. Trasferita sugli strumenti fabbricati, la melodia corrisponde alla recitazione dello “uiua- ui”, un pianto stilizzato che pensa possa rappresentare i sentimenti degli Assiri in fuga per la propria vita. Prendendo a modello le lamentazioni ebraiche, Šuillakku, è strutturata nelle fasi dell’isolamento, dell’irritazione, della contrattazione e della depressione. Per chi ascolta. Šuillakku, definire “scomoda” la sensazione provata è sicuramente un eufemismo. Musica, canto, versi di animali, rumori e il suono degli sputi che pare gli antichi Assiri ritenessero utili contro la malasorte, compongono una cacofonia che assale a ogni passo. Apparentemente vuoto, lo spazio espositivo risulta così saturo e la distribuzione dei suoni lo modifica mentre lo si attraversa. Nel suo percorso di immedesimazione con gli antichi Assiri e le loro credenze, Cuoghi ritrova più volte il demone Pazuzu. Nel loro pantheon, è uno tra gli spiriti maligni più temuti, associato con i venti, soprattutto quelli freddi provenienti da nord-est che, soffiando dalle montagne, portavano le febbri e distruggevano il bestiame e i raccolti. La diffusione di piccole statue o teste con la sua effige, testimonia che il demone fu utilizzato per cacciare altri demoni. Amuleti con le sue fattezze erano posti alla difesa di abitazioni, culle o indossati come ciondoli. Tra i reperti rinvenuti, una piccola statua in bronzo conservata al Louvre a Parigi testimonia la natura ibrida del demone, parte uomo, parte animale e la difformità dallo stile associato ai manufatti del periodo. Sorprendente è invece l’affinità iconografica con le più diffuse raffigurazioni del Maligno in ambito occidentale, a partire dall’epoca medievale. Realizzato da Cuoghi in occasione della sua personale al Castello, Pazuzu, 2008, è riferito alla statuetta del Louvre ed è stato realizzato con un procedimento di scannerizzazione laser che ha permesso di trasformare l’originale, di circa quindici centimetri, in una scultura monumentale, alta più di sei metri. La precisione assicurata dalla prototipazione è considerata dall’artista un aspetto imprescindibile dal significato della sua opera. Appropriandosi delle superstizioni assire, Cuoghi reitera l’idea che il demone abiti qualunque sua effige o riproduzione di essa. Mantenendone l’originale funzione apotropaica, il Pazuzu di Cuoghi è un amuleto a misura di Castello e funge da scudo per difendere il luogo da attacchi malvagi o meglio riflettere l’onda di irrazionalità che sembra permeare il mondo contemporaneo.

Marcella Beccaria