Bertrand Lavier

Il rapporto tra la realtà e gli strumenti della sua rappresentazione, dalla comunicazione verbale all’arte visiva, guida la ricerca di Bertrand Lavier. Compiendo un’analisi che può essere paragonata agli studi sul linguaggio di Michel Foucault, nelle sue opere Lavier espone il continuo scollamento tra le cose e le parole che tentano di definirle. Attraverso i suoi lavori l’artista instaura un processo di destabilizzazione, tendendo a dimostrare, come egli stesso osserva, «che è il linguaggio a determinare il reale e non viceversa». Piuttosto che porsi come rassicuranti dispensatrici di un significato univoco, le sue opere spesso funzionano come trappole logiche. Mettendo in questione i criteri che separano la sfera artistica dalla vita quotidiana, Lavier adotta indifferentemente materiali appartenenti ai due ambiti. Dall’inizio degli anni Ottanta ricopre con pittura acrilica oggetti di uso comune, utilizzando gli stessi colori che caratterizzano ciascun dettaglio dell’oggetto prescelto. Il risultato è quello di conseguire una sorta di osmosi tra la pittura fluida e il solido sul quale essa viene stesa, producendo opere capaci di destabilizzare i confini tra la categoria della pittura e quella dell’oggetto.

 

In Steinway and Sons, 1987, l’artista usa un autentico pianoforte a coda prodotto dalla nota ditta americana. Privato della sua funzionalità, il pianoforte è coperto da pennellate larghe ma precise, evocative dell’ideale tocco pittorico che definisce il canone artistico moderno, da Van Gogh al gesto neo-espressionista. Al tempo stesso, la tautologia insita nell’idea di utilizzare la pittura quale verniciatura che ricopre fedelmente l’identico, sottrae drammaticità al gesto pittorico.

 

Un principio analogo è alla base dell’opera Ventomatic, 1982 nella quale un ventilatore è ricoperto da pennellate di pittura acrilica che reiterano il colore e i dettagli dell’oggetto. Anche in questo caso, inoltre, l’oggetto di partenza ha una funzionalità sonora che l’operazione artistica intenzionalmente nega. Ampliando la propria indagine agli spazi destinati a ospitare l’arte, Lavier estende la propria azione a dettagli architettonici delle sale museali, come nel caso di Fenêtre (Finestra), 1982-1996, realizzata su un infisso del Castello in concomitanza con la sua mostra personale. Conformemente alla tecnica dell’artista, ogni dettaglio dell’oggetto è dipinto con lo stesso colore che lo caratterizza, inclusi i pannelli di vetro che sono ricoperti con pittura acrilica trasparente.

 

Un diverso ribaltamento delle convenzioni artistiche avviene in Mobymatic, 1993. Senza alcun intervento formale da parte dell’artista, l’opera presenta quale oggetto scultoreo un ciclomotore sinistrato. In questo caso, come in altre opere realizzate nello stesso anno, Lavier ripropone l’idea del ready-made – l’oggetto prelevato dalla vita e presentato in contesto artistico come originariamente fatto da Marcel Duchamp definendolo però ready-destroy. Diversamente da Duchamp, la scelta di Lavier si concentra infatti su oggetti fortemente connotati da possibili risvolti tragici: il ciclomotore vistosamente danneggiato rimanda a una storia drammatica, capace di provocare emozione. Il titolo dell’opera non legittima però nessuna narrativa precisa e ripete semplicemente il marchio di fabbrica dell’oggetto.

 

Intitolata con il marchio di fabbrica è anche l’opera Guzzini, 1996, costituita da lampade montate su rotaie elettriche. In questo caso, i materiali impiegati alludono al contesto della galleria o del museo, trasformando in opera alcuni dei complementi tecnici che solitamente la circondano ed esponendo uno spazio vuoto dove la luce emessa dalle lampade non illumina nulla.

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