Joel-Peter Witkin
Sovvertendo l’ordine stabilito, le immagini di Joel-Peter Witkin tendono alla messa in scena di situazioni dove i confini tra lecito e illecito, femminile e maschile, vita e morte sono continuamente attraversati e abbattuti, proponendo invece una condizione di incertezza e fertilità primordiale della quale l’artista è il demiurgo. Attingendo alla storia dell’arte o inventando iconografie inedite, Witkin crea tableaux fotografici che inscenano un immaginario apocalittico dove l’eccezionale fisico e sessuale diventano protagonisti. Ogni sua fotografia si propone come una membrana rivelatrice di un nuovo universo, dove il carnale e il trascendente si incontrano. Cura estrema viene data al valore tattile dell’immagine. Witkin interviene spesso sul negativo, graffiandolo, alterandolo e agendo poi sulla stampa per creare una patina che sembra riportare le sue immagini agli albori della fotografia. Blackman Rome (Uomo di colore Roma), 1996, riprende il noto tema della flagellazione di Cristo. Secondo l’iconografia rinascimentale, da Piero della Francesca a Sebastiano del Piombo, la figura centrale appoggiata alla colonna funge da perno della scena, definita ai lati dalle azioni dei due carcerieri. Nella fotografia di Witkin alla tradizionale presenza della figura sacra si sostituisce il corpo di un uomo di colore. Il ribaltamento consegna l’immagine al presente, proponendo un doloroso commento sull’intolleranza razziale.
The Eggs of my Amnesia (Le uova della mia amnesia), 1996, mette in scena una visione i cui elementi sembrano frammenti di ricordi ormai offuscati. Due corpi ermafroditi dal volto mascherato dominano la scena, quasi si trattasse di attori che interpretano una storia che non è più possibile ricordare. Lo sfondo ha l’aspetto di un sipario, sul quale sono riconoscibili elementi appartenenti all’ambiente circense, attraverso citazioni dell’opera del pittore veneziano Pietro Longhi. Come in un gioco di specchi, la fotografia inscena una situazione al limite tra realtà e rappresentazione.
Sublimando l’eccesso, Witkin indaga lo scomodo territorio dell’immaginazione. «La mia speranza – dice – è di non rappresentare solo l’alienazione delle nostre vite, ma che il mio lavoro sia visto come parte della storia di un’epoca incerta e disperata».
[M.B]