Marco Bagnoli

“Sto sviluppando esperienze il cui risultato potrebbe essere un accurato disegno dove passato e futuro vengono a trovarsi allo stesso livello” ha detto Marco Bagnoli in occasione di una sua mostra personale all’inizio degli anni Ottanta. Già dal decennio precedente, Bagnoli traccia un originale percorso poetico, all’interno del quale dispone le condizioni per abbandonare l’opposizione dualistica tra il pensiero intuitivo e quello razionale. Nell’ambito di tale ricerca, l’artista intenzionalmente si riallaccia al Rinascimento italiano, a una tradizione culturale nell’ambito della quale la filosofia e la scienza sono parte integrante della figura dell’artista. Alimentandosi con continui studi e viaggi, nel corso degli anni Bagnoli ha approfondito i numerosi ambiti che compongono la sua vasta cultura. Impiegandoli quali strumenti per le proprie opere, egli ha così attinto alla cultura islamica, alla poesia mistica del persiano Rumi, al Sufismo, alle dottrine dell’Induismo e del Tao. Mirabile verso di là dell’atmosfera, 1986, è parte di tale itinerario artistico, teso a sottolineare convergenze e dissonanze tra i misteri delle culture iniziatiche orientali e la cultura occidentale. Poetica visione di un paesaggio esterno, l’installazione propone un possibile sfondamento della definizione architettonica dell’ambiente interno, attraverso la visione del tetto di un edificio colpito da un fulmine. L’improvvisa scarica di energia e il manifestarsi della luce sono resi come una successione di tegole policrome, in ceramica smaltata. In un commento all’I Ching, il sacro Libro dei Mutamenti cinese, analogamente al silenzio opposto alla parola, il fulmine viene definito il non-essere supremo, totale possibilità e indeterminazione, capace di far vedere in un istante il cuore dell’universo. L’arte di Bagnoli tende a raggiungere l’essenza e, nelle sue opere, forma e significato sono sempre legati da un’intima necessità. La Parola (come la Colonna ogni parola nel silenzio una colonna), 1991, è un’installazione in apparenza cubica, la cui altezza è superiore a quello dello sguardo. Imponente e labirintica, l’opera lascia percepire qualcosa di sé attraverso dieci aperture disposte lungo tre lati. In ciascuno di essi, l’alternanza di luce e di buio rivela la presenza di colonne e stretti corridoi; il quarto lato si presenta invece come un muro compatto. L’impossibilità di vedere l’opera dall’alto, e perciò di possederla completamente con l’intelletto, corrisponde alla forma che ne detta l’esistenza nello spazio. La complessa architettura della struttura corrisponde infatti all’innalzamento della stessa “parola” in grafia kufica, l’antico termine arabo che descrive il divino e che quindi non viene pronunciato.
La ricerca dell’assoluto è anche uno dei temi dell’installazione formata dalle opere Colui che sta e Benché sia notte, entrambe datate 1991-1992 e realizzate da Bagnoli in occasione della sua personale al Castello. Nella prima opera, le diverse rotazioni di una serie di dischi lignei originano una scultura la cui ombra proietta un doppio profilo umano. Il titolo trae origine dalla figura dello Sthanu vedico, trasformazione di una divinità in un pilastro di fuoco circondato dalla continua emanazione e sparizione di molteplici figure, evocazioni degli esseri mortali che si rifiutò di creare. Simile a una creatura bifronte, capace di vedere in direzioni opposte e di trarre energia dinamica dalla propria stasi apparente, l’opera suggerisce la possibilità di superare i limiti dualistici della ragione. Come una nicchia per la statua, o la volta stellata per gli esseri umani, Benché sia notte traccia uno spazio di riferimento, un ambito rispetto al quale orientarsi. L’opera è composta da un reticolo in rame a larghe maglie, sulle quali sono posate piccole radici di bosso. La luce riveste un ruolo fondamentale nell’intera opera di Bagnoli. In Porte regali, 1992, l’artista impiega l’alabastro, utilizzandolo per costruire una struttura simile a un grande portone luminoso. La trasparenza del materiale lascia trapelare una luce uniforme, possibile emanazione di una dimensione altrimenti inaccessibile. L’idea che l’opera sia un canale di collegamento ideale è ribadita da un altro elemento, presente in più lavori di Bagnoli: la banda verticale rossa, “il campo di cinabro” che definisce il centro della struttura. Il titolo dell’opera si riferisce al saggio di Pavel Florenskij dedicato alla pittura delle icone russe medievali e alla loro funzione di soglia tra il mondo visibile e quello invisibile della divinità.
Nel corso della sua ricerca, Bagnoli ha più volte privilegiato luoghi al di fuori delle tradizionali sale museali, scegliendoli in quanto ambienti dai quali trarre diretta ispirazione. Per l’antico bacino posto all’esterno del Castello di Rivoli l’artista ha ideato la fontana Cinquantasei nomi, 1999-2000. L’opera è formata da altrettante canne realizzate in analogia al bambù, ma dipinte nei colori blu e rosso. La loro disposizione segue il “quinconce”, la configurazione a file parallele sfalsate di mezzo passo usata in arboricoltura. Adottato in Occidente fin dal tempo degli antichi romani, il quinconce è rintracciabile anche in Oriente, in particolare nella mistica tibetana, in quanto elemento centrale a partire dal quale si sviluppa il mandala.

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