Mario Giacomelli
Nel corso della sua carriera Mario Giacomelli ha sviluppato in modo personale la forza lirica della fotografia, inquadrando grandi temi dell’esistenza umana. Il trascorrere del tempo, la memoria, la terra, la sofferenza e l’amore sono stati tra i suoi soggetti. La scoperta della macchina fotografica quale strumento espressivo ideale avviene il giorno di Natale del 1953, quando Giacomelli scatta le sue prime immagini sulla spiaggia di Senigallia con una Comet Bencini acquistata il giorno prima. La fotografia risultante è L’approdo, immagine del bagnasciuga lambito da un’onda simile a una pennellata in movimento. Dopo le prime immagini a tema, Giacomelli impiega il mezzo fotografico per sviluppare serie fotografiche in forma di racconti per immagini. Le fotografie in collezione coprono l’intero arco cronologico dell’attività del fotografo, dagli esordi sino agli anni Novanta. Per circa nove anni Giacomelli fotografa l’ospizio di Senigallia, luogo che frequenta sin da piccolo, quando la madre, rimasta vedova, vi trova lavoro. Le immagini sono divise in serie differenti (1954-1956; 1966-1968; 1981-1983) e sono solitamente identificate con il titolo Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, ripreso dalla poesia di Cesare Pavese. Nel loro insieme, le diverse serie possono essere considerate l’opera omnia del fotografo, quella alla quale si è dedicato con maggiore continuità nell’arco della sua vita. Giacomelli affronta il difficile tema della decadenza fisica e della morte imminente con grande consapevolezza. Le immagini sono caratterizzate da composizioni volutamente disarticolate e al limite dell’astrazione. «Più che quello che avevo davanti agli occhi – ha detto il fotografo a proposito di queste immagini – volevo rendere quello che avevo dentro di me».
La serie Scanno, 1957-1959, nasce dall’incontro del fotografo con l’omonimo paesino degli Abruzzi. Giacomelli rimane impressionato dall’atmosfera quasi di fiaba del luogo; scatta e stampa le immagini di questa serie in modo da accentuare al massimo il contrasto tra le persone abbigliate in nero e il bianco abbacinante del selciato. Il risultato, fortemente grafico, volutamente annulla possibili valenze documentarie, accentuando invece il carattere di Scanno quale paesaggio interiore.
Tra le serie forse più note è Io non ho mani che mi accarezzino il volto, 1961-1963, ambientata nel seminario vescovile di Senigallia. Il titolo riprende una poesia di padre David Turoldo la cui lettura spinge Giacomelli ad avvicinarsi al seminario. Come nel caso di altre serie, il fotografo frequenta il luogo per circa un anno, nel corso del quale i giovani preti si abituano alla sua presenza e a quella della macchina fotografica. Gli scatti iniziano in una giornata di neve, nel corso della quale Giacomelli fotografa a bassa velocità i seminaristi durante la pausa di ricreazione. Le fotografie del seminario restituiscono l’incanto di uno spazio profondamente umano, ma anche sospeso in un’astrazione temporale.
L’opera aperta di Giacomelli è costituita dai suoi studi sul tema del paesaggio, che lo impegnano fin dalla metà degli anni Cinquanta. Come è stato osservato nella letteratura critica, i suoi paesaggi sono caratterizzati da una personale organizzazione dell’immagine, centrata sulla progressiva scomparsa dell’orizzonte. All’impostazione formale e alla purezza geometrica delle immagini contrappone l’attenzione per i segni della terra, il suo interesse nei confronti della materia e delle «rughe» che ne compongono la memoria.
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