Giulio Paolini

Giulio Paolini parla attraverso le sue opere. Si riflette, si racconta e si analizza sulle pareti, si intravede nelle prospettive dei suoi quadri, si rispecchia nelle scenografie delle sue installazioni, vive nelle allusioni delle sue citazioni, si definisce senza contraddizioni nell’intero corpus dei suoi lavori. Fin dall’inizio la sua indagine verte sulla struttura della visione e la sua ricerca si orienta sull’analisi dei fondamenti costitutivi della creazione artistica. Le opere in collezione tracciano un percorso nel suo linguaggio espressivo, che pur non volendo essere esaustivo, si offre come interpretazione dei campi problematici aperti dalle sue riflessioni e individua nell’identità assoluta tra autore e opera il fondamento del suo magistero artistico. Senza titolo, 1964, appartiene a una serie di lavori realizzati agli inizi della sua carriera in cui affronta la separazione tra supporto e immagine. Due semplici pannelli in legno di dimensioni differenti sono appesi al muro, il più piccolo è posizionato al centro del più grande in modo che la proporzione tra i due riproduca quella che esiste tra un quadro e la parete, tra l’opera e lo spazio espositivo che l’accoglie. Liberando il quadro dalla sua funzione di veicolo di raffigurazione per assumerlo come immagine di per sé, l’artista compie un atto fondamentale nel suo percorso creativo e intraprende un viaggio all’interno del sistema dell’arte, analizzandolo e scomponendolo dall’interno. 1/25, 1965, è una fotografia che raffigura l’artista mentre trasporta una tela, di cui vediamo solo il retro. Il titolo fa riferimento al tempo di esposizione impiegato per scattare il fotogramma e permette di inserire l’elemento temporale quale componente ricorrente della sua grammatica espressiva. Realizzata da un fotografo professionista, Franco Aschieri, la foto indica la relazione che si instaura tra l’autore e le sue opere, tra la sua persona e l’immagine che è o sarà rappresentata. Astrolabe (F.P.) (Astrolabio- F.P.), 1967, cita un disegno di Francis Picabia a cui si riferiscono anche le due iniziali contenute tra parentesi. Si compone di cinque elementi, quattro sfere o porzioni di esse in plexiglas e un mappamondo da disporre a libero piacimento nello spazio. L’astrolabio, strumento antichissimo utilizzato per la misurazione degli angoli celesti, è il semplice spunto per una citazione all’origine della quale si può leggere il significato dell’arte come repertorio della memoria collettiva, mentre il vero soggetto risiede nella convergenza tra creazione e percezione, l’autore stesso cerca di trasmettere a chi guarda le sue emozioni di spettatore. La poetica di Paolini si sviluppa attraverso infinite riflessioni, è un linguaggio che cresce su stesso nella ricerca dei fondamenti oggettivi della pittura, come testimonia Primo appunto sul tempo, 1968, una tela bianca sulla quale non compare alcuna immagine ma soltanto una scritta, in alto a destra, da cui il dipinto trae il titolo. Quelle parole rendono assoluto l’istante che fa coincidere il tempo dell’opera con quello della sua realizzazione in modo tale che essa viva nello sguardo del momento. Apoteosi di Omero, 1970-1971, è un omaggio a un quadro di Ingres conservato al Louvre dove alcuni personaggi appartenenti a epoche passate condividono lo spazio della scena. In questo dipinto allegorico la figura di Omero, posta al centro della composizione, rappresenta il modello di perfezione a cui aspirare, la classicità come emblema di bellezza formale. Qui Paolini fa seguire all’indagine analitica e geometrica delle prime opere, la passione per la rappresentazione teatrale, l’interesse per l’organizzazione dello spazio scenico come installazione e il gusto della citazione. In Apoteosi di Omero, una serie di fotografie che ritraggono attori teatrali o cinematografici nell’atto di interpretare alcune personalità della storia, sono posizionate su leggii, come fossero partiture, disposte senza un centro, senza un particolare punto di riferimento. La scena ordinata senza alcuna finalità narrativa e la mancanza di un nesso tra le figure indicano che la rappresentazione potrebbe non avere mai fine e il numero dei personaggi coinvolti procedere all’infinito. Un nastro magnetico riproduce due voci narranti che recitano in lingue diverse uno scritto dell’artista. Nella tensione verso l’identificazione assoluta con un modello classico si presenta Casa di Lucrezio, 1981-1984, un’opera realizzata in sette varianti. Nell’esemplare in collezione, la frammentazione in quattro parti di una tavoletta in gesso, su cui è inciso il disegno di un labirinto, rinvenuto in una colonna nell’abitazione di Lucrezio a Pompei, è abbinata a quattro calchi, due interi e due in frantumi, possibili sembianze del poeta latino, posizionati su altrettante basi. Secondo il pensiero di Paolini è nei frammenti, tracce di possibili forme di corpi inafferrabili, che possiamo intravedere la pienezza della bellezza classica, la sua perfezione formale e intellettuale. L’artista si confronta con il poeta secondo una dialettica autoriflessiva alimentata dalla frantumazione, dal doppio, dalle immagini speculari, quali cifre stilistiche per l’ideazione di un’architettura scenica. Dietro una facciata geometricamente ordinata e oltre la nitidezza razionale dei contenuti, le sue opere rivelano un’intrinseca anima labirintica, uno spazio vuoto che supera i limiti fisici del quadro e che scuote l’enigmatica quiete delle sue composizioni. Con penetrante lucidità egli riflette su se stesso, sulla storia dell’arte antica e moderna e sull’immaginazione visiva dell’uomo, come dimostra Il cielo e dintorni, 1988, dove diciotto bandiere, su ognuna delle quali è rappresentato un particolare di un celebre capolavoro, sono raccolte in un’unica composizione e posizionate verso l’alto. Originariamente concepito per essere collocato all’esterno, l’allestimento in un interno è stato ideato dall’artista stesso. Come segni della memoria offerti al vento, le immagini della nostra cultura rappresentano per l’autore lo stimolo per la perdita di orientamento e lo strumento per intraprendere un viaggio che dia vita al luogo della visione. Nel suo immaginario poetico tutte le opere vanno lette sotto il segno dell’unità e identità di intenti, è “un quadro che contiene tutti i quadri”, che precede e si sviluppa entro passaggi, attraversamenti e citazioni, come dimostrano il Sipario e Fondale per il Teatro del Castello di Rivoli, 1997. I due teloni, realizzati appositamente per il teatro del museo, rappresentano metaforicamente l’intervallo che ci separa dall’immagine. Le figure di sei valletti, “antichi” abitanti del luogo, sono ordinati in prospettiva come elementi architettonici che definiscono lo spazio della rappresentazione. Custodi delle immagini portano in scena il logo del museo, elemento iconografico che incornicia, nel sipario contraddistinto da un fondale bianco, particolari delle opere in collezione, mentre in quello su fondo blu frammenti di stelle o pianeti. In Zeusi e Parrasio, 2003, la storia si confonde con la leggenda in un dialogo tra verità e finzione tanto caro alla sua poetica. Di questi due artisti, la cui fama era celebre nell’antichità, non conserviamo testimonianze, né opere che possano confermare il loro talento, ma solo il racconto di Plinio il Vecchio che li vuole coinvolti in una gara con cui si contesero il primato di pittore più abile dell’epoca. Attraverso il ricordo di questo aneddoto Paolini mette in scena un’affascinante operazione mentale. I frammenti di due volti, contenuti in teche e posizionati su basi, sono disposti di fronte a una tela bianca su cui è disegnato lo spazio che li contiene. Nella frammentazione dei calchi si riflette la disgregazione dell’unità visiva e concettuale. Le due figure, Zeusi e Parrasio, si dissolvono di fronte al vuoto rappresentato nella tela che resta in attesa di un’immagine. È l’artista che svanisce di fronte all’opera che deve ancora venire, in un gioco di ruoli e di scambi fra autore, attore e spettatore. Tutto il suo lavoro si muove sotto il segno dello sguardo in uno studio delle corrispondenze e analogie che citano il passato aprendo nuove prospettive e indicando nuovi confini per la ricerca artistica. In questa poetica della citazione, della duplicazione e del frammento, in un rapporto tra vuoti e pieni delle immagini, ben si posizionano le opere su carta, che appartengono alla collezione del museo, e rappresentano una risposta intima e personale alle sue continue riflessioni. Il cielo e dintorni, 1988, è un collage composto da diciotto disegni preparatori dell’opera omonima. In Studio per ‘A perdita d’occhio’, 2007, un’imbarcazione, metafora dell’atelier dell’artista, scorre sull’acqua. Segna il ritorno al collage in un periodo recente della sua carriera e sintetizza poeticamente tutto il suo intenso e affascinante percorso artistico dove l’opera è la continua ricerca di un approdo nel viaggio all’interno della visione. Stanza 18 (Il momento della verità), 2008, registra un momento particolare, un attimo di sospensione in cui Paolini verifica i risultati raggiunti e intravede spazi ancora da affrontare. Concepita per la mostra della collezione del Castello, l’opera rappresenta un’immagine elaborata dall’interno della cavità oculare, attraverso la quale percepiamo l’apertura di una visione senza tempo. Entriamo così nella zona più intima e personale: lo spettatore guarda l’autore mentre questi osserva se stesso nell’atto di attendere alla concezione dell’opera.

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